Un tempo il vero motore della ricerca scientifica era la curiosità: la dedizione del ricercatore, la paziente elaborazione di dati non sempre rapidi da interpretare, la sua attitudine personale all'approfondimento, lo conduceva nell’erta via della ricerca scientifica.
Poi ci furono la rivoluzione digitale, la globalizzazione, la fretta.
La trasformazione dei sistemi di comunicazione, la competizione tra istituti universitari e tra docenti per l’accesso alle risorse hanno cambiato il metodo di lavoro che ha caratterizzato la ricerca di base dall’Ottocento a oggi.
La pazienza e il tempo, ingredienti necessari per vagliare e meditare su quanto scoperto nel corso di indagini scientifiche, sono stati sostituiti dalla pressione carrieristica, quantificata in articoli prodotti e pubblicati su riviste specialistiche, meglio se internazionali.
I giovani, presi dalle maglie della stretta competitiva contemporanea del publish or perish (pubblica o soccombi) sono tra coloro che più di tutti risentono del clima commerciale che lambisce l’ambiente della ricerca universitaria.
Questa pressione unita a un allentamento delle formule di revisione tra colleghi (peer-review), l’apertura dell’editoria universitaria a realtà online di libero accesso non sempre rigorose, la mancanza di lealtà nel produrre articoli che duplicano conoscenza già esistente e uno spudorato sistema di plagio – a volte sin dalle tesi di dottorato – rischiano di danneggiare irrimediabilmente il processo di acquisizione e produzione di nuova conoscenza.
Per ritrovare dunque la dimensione della scienza come vocazione, del mondo nel quale avventurarsi con gli occhi entusiasti di chi vuole scoprire come funziona, della realtà di chi prova piacere per quei rapporti umani che caratterizzano la produzione condivisa del sapere, si suggerisce di leggere – con calma –“Scienza, quo vadis?” di Gianfranco Pacchioni.
Per saperne di più: Gianfranco Pacchioni, Scienza, quo vadis?